Istanbul, primo giorno di primavera.

Un uomo tarchiato e calvo, mani tozze, volto annerito come se provenisse da un antro fumoso, trascina un carrello con un pianoforte verticale in miniatura. Quattro passi e si ferma. Attende che qualcuno si avvicini, il cappello per terra. Il piano suona una nenia, i tasti si muovono da soli. Ritmo di valzer, più un canto che un ballo; meglio, una cantilena. Una melodia elementare, rassicurante, ripetitiva.

Alzo gli occhi verso il Bosforo. La giornata è lattiginosa, il cielo è quasi bianco, ma l’aria è leggera. Il tepore marzolino si allarga in respiri ventosi. I miei passi, a bordo acqua, prendono il ritmo della melodia. Mi viene da ballare, un-due-tre, un-due-tre.

Piano piano, di nascosto, lo faccio. Nessuno mi nota.

Guardo avanti, lungo la riva di Ortaköy, all’ombra dell’antica moschea, dove vengono a passeggiare ragazzi in libera uscita e mamme con i bambini. E gente varia, che qui posa a terra gli affanni del giorno e si lascia vegliare dal grande Ponte. Lo sguardo si allunga alle ville quiete di Çengelköy, sulla riva asiatica, al volo dei gabbiani che si affollano intorno ai traghetti diretti a Eminönü. La nenia si attacca all’anima come una sbavatura, una macchia liquida che si allarga e la impregna. Gioco o tormento? Fastidio o carezza? Il confine è labile.

Arrivano quattro ragazzi sugli skateboard.

Veloci, sfrecciano: rumore sulle pietre dell’impiantito, ruvide e irregolari. Urlano, si chiamano, saltano, colpi in atterraggio, uno cade, ridono. Via veloci, e la nenia sembra unirsi a loro. Si fa rag, energia pura. Il ritmo si impenna, accelera, quasi strizza l’occhio. Loro tornano, schiamazzano, si spintonano. Pacche, risate. E via di nuovo, nel loro mondo rapido. Tra-ta-tac, si allontanano in una nuvola di grida.

 

La nenia torna al suo ritmo. E rallenta ancora. E ancora. E diventa greve. Come i passi dell’uomo che si avvicina. Severo, sguardo cupo, volto rugoso, indispettito da qualsiasi lampo di gioia possa accendersi intorno. Anche se non fa freddo, indossa un cappotto color pietra, il collo in astrakan. Zoppica leggermente. Un ex dignitario in lotta con il tempo? Ogni passo un tonfo; ogni sguardo un rimprovero. A me, che sembro camminare a ritmo di musica. Ai bambini vocianti. Alle navi all’orizzonte. “Io ero”, il suo pensiero colpisce triste. E la nenia ora marcia sbilenca, sprofonda nelle note basse, scandite con malagrazia.

L’uomo con l’organetto avanza ancora un po’.

Forse qui va meglio. Qualcuno metterà qualche kuru? Mi avvicino all’acqua, una barca dondola poco lontano, tra riflessi verde-neri. Mi perdo nello sguardo che avvince i due occupanti, un ragazzo e una ragazza, lui ai remi, lei a prua. Ridono, parlano, gesticolano per celare l’emozione che li solleva e li stravolge. Nel loro vortice assorbono ogni cosa: il grande braccio di mare, il pulviscolo del mezzogiorno, il ponte gigantesco. E anche la nenia, che ora sembra una barcarola, dolcezza che ferisce.

 

Così alzo gli occhi, ferma sulla riva. Mi lascio portare in alto da un gabbiano solitario. Staziona quasi immobile, trasformando in leggerezza la forza del vento. Rimango lassù anch’io, con lui: i suoni si smorzano, la città tace. Tranne un arpeggio – la nenia? – che mi ricorda Bach. Sottile, sereno, costante.

Ma il gabbiano piomba giù, punta a un pesce in acqua.

Di nuovo il suono dei clacson, il fischio dei mercantili lontani. La nenia riprende. Sembra la solita. Non è mai cambiata?

L’uomo dal carretto con il pianoforte lentamente mi supera. È stata una buona giornata. La melodia rotola goffa, incespicando con lui. Prima di svoltare dietro a un chiosco, mi guarda. È il lampo di un sorriso?

(Grazie a Fazil Say e alla sua Yeni bir Gülnihal)

02 – Scrigno dipinto a mano con motivi di uccelli e fiori e scomparto interno. Turchia.