– Vuole la genovese?
Il commercialista Giovanni Malozzi controllò la focaccia nelle mani della commessa della panetteria: pasta spugnosa, alveoli elastici, superficie dorata con chiazze chiare e cremose là dove l’olio aveva impregnato le fossette create dal pollice del panettiere. Proprio quella, voleva. Se l’era figurata mentre camminava, nel sole di gennaio, nella luce di mezzogiorno che sembrava tradire un che di primavera – che inganno, questo anticiclone delle Azzorre, di cui tutti i siti, nel giro di poche ore, avevano rimbalzato l’arrivo. Esattamente come le notizie dal fronte ucraino, l’anticiclone aveva assunto la dignità di un’Ultima Ora.
– Sì, grazie, metà.
La commessa, incurante dell’indicazione, la incartò tutta intera. Non è che non avesse capito, ma doveva venderla prima della chiusura. Domani non l’avrebbe voluta più nessuno.
“Pazienza”, pensò Malozzi, “era destino.”
Quella doveva mangiare, e l’avrebbe mangiata senza sensi di colpa. L’ultimo atto di una partitura strana, iniziata quella mattina, anzi, la notte prima. Quando nel letto, dopo la mezzanotte, incapace di prendere sonno, si rese conto che non si era mosso – a parte l’uscita mattutina per andare in studio e quella serale per rientrare, venti minuti di passi in totale, nella fretta andando, nello scorrere le mail rientrando.
Non aveva respirato. Non aveva guardato il sole. Non aveva fatto altro che pensare a cose poste in un altrove virtuale; non ai passi, non al suo corpo, e alle sue gambe il cui sistema linfatico, nella notte, si era ribellato. Costringendolo a camminare nel silenzio della casa fino a che la circolazione dei liquidi si era sbloccata, almeno un po’.
“Basta, domani mollo tutto e vado fuori”, aveva giurato.
Fuori, dove non lo sapeva. Ma la mattina dopo, sistemate le faccende più urgenti, era uscito. A vagabondare per le vie color pastello del centro storico.
Non aveva una meta, non doveva camminare per 10.000 passi o cinquanta minuti, non aveva niente da fare. “Mi cercheranno, se hanno bisogno”, aveva detto tra sé e sé, ma – miracolo! – nessuno lo aveva cercato.
Così aveva assecondato voglie e pensieri, quelli che non avevano mai tempo di manifestarsi, quelli peregrini, sfaccendati; più che altro ricordi, legati a quella via, a quell’altra piazza, in quelle stesse ore del giorno in cui, da ragazzo, percorreva in lungo e in largo la città. In bicicletta, sempre in ritardo, carico di sogni, attese, aspettative. C’era una storia, dunque, anche senza spingerla con il motore a mille. Stava lì, sotto la cenere, stratificata: fatti ed emozioni lontani, che lo rendevano vivo anche senza fare nulla, senza dover essere nessuno.
Lo vide, allora. Era sullo scaffale di un rigattiere. Un portapastiglie dell’Ottocento, dai dettagli raffinatissimi. Tondo, in metallo smaltato, con minuscole stelline color argento sul fondo azzurro come il cielo di quella mattina, e una corona di foglie d’acanto a ornare i bordi dorati dell’apertura. Sarebbe piaciuto a sua madre. L’acquistò senza pensarci. Poi lo mise in tasca e, continuando a girovagare, se ne dimenticò.
All’uscita dalla panetteria, Malozzi si mise a sbocconcellare la focaccia, pescandola pezzo dopo pezzo dall’incarto nella borsa, camminando e masticando, anche se no, non era il massimo del galateo. Ma non poteva sottrarsi. Come quando arrivava a Sestri Levante, da ragazzo, con la sua fidanzatina, partito in treno la mattina presto dalla città ancora nell’oscurità. E prima di fare qualsiasi altra cosa, affamato di vita, si godeva la focaccia calda appoggiato a un muretto scalcinato, davanti alla Baia del Silenzio nel mattino di primavera.
Con l’altra mano, in tasca, trovò la scatoletta. Decise di tenersela, non l’avrebbe regalata. Possedeva il segreto felice di quella mattina.
01 – Portapastiglie rotondo in metallo smaltato, Italia, XIX secolo